Passaggi d’autunno 2025
Passaggi d’autunno 2025
Blu a cento passi dal mare
Blu a cento passi dal mare
Io provengo dal mare e so che il giorno che l’oceano
riversò le sue prime onde sulla riva,
bagnò scogli già erosi dalle maree,
spiagge cosparse di frammenti di conchiglie e promontori
che difendevano dalle acque le sponde frananti della terra.
Il progetto
si realizza attraverso una scrittura coreografica di danza, di sogno, di canti, e musica dal vivo, dove i corpi risuonano una fitta rete di suoni e di voci di chi come me è nata e cresciuta a cento passi dal mare. “Cento passi è vicino. Talmente vicino che si può ascoltare il rumore del mare…” Un’opera che fluisce come un’onda, portando lo spettatore attraverso il tempo e la memoria, il ricordo e la trasformazione e la musica dal vivo crea un’esperienza che respira e si muove con la forza e la delicatezza del mare. Il teatro diventa una distesa liquida in cui ogni elemento – parole, gesti, suoni, immagini – si fonde, evocando la vastità dell’oceano e delle emozioni umane. Emerge una capitana solitaria, una figura evocativa che guida il vascello tra onde di memoria e tempo, sospesa tra naufragio e salvezza. Attraverso la sua voce, la navigazione assume contorni intimi e universali. Intorno a lei, una ciurma di donne simboliche si muove e si racconta, ognuna con la propria presenza unica: sono amiche, compagne di viaggio, o forse frammenti della protagonista stessa. Come tante anime o sfaccettature di una personalità complessa, le interpreti richiamano un viaggio interiore che esplora i molteplici sé della donna protagonista, in un racconto che si aggiunge e spesso sostituisce con gesti e movimenti alla parola. Uno dei tanti momenti significativi sulla scena, che riflette sulla fragilità della memoria, è rappresentato dall’immagine del “cameo”, che richiama l’effimera bellezza fissata in un’effigie. Anche le parole più poetiche possono essere dimenticate, portate via come l’acqua che scorre e cancella. È un’immagine
potente, che racchiude l’ironia dell’esistenza: le nostre tracce, per quanto profonde, possono dissolversi, ma in quel fluire si cela la possibilità di rigenerarsi. L’acqua, che scorre dal fondo di una bacinella o di uno sciacquone, non porta via solo dolore, ma diventa un atto di autoironia e speranza, un invito a non rimanere intrappolati nelle perdite, ma a lasciarle andare per ritrovare vitalità. Uno dei momenti più poetici e riusciti cade all’improvviso letteralmente dal cielo. Una nevicata di polvere sottile avvolge ogni cosa in un surreale piovere silenzioso e carico di significato. La cenere copre lentamente il tavolo, i bicchieri e i corpi delle donne, evocando un tempo sospeso, un luogo dove la solitudine, i ricordi e la malinconia si stratificano come sedimenti di vita vissuta. In questo paesaggio immobile, le figure femminili non si fermano: si raccontano, si pettinano, danzano tra loro e con gli oggetti, trasformando questo manto impalpabile in una coreografia di gesti che celebrano la forza vitale. È un’immagine che richiama non solo il mare, ma il ciclo della natura, in cui tutto si
trasforma e rinasce: la cenere, simbolo di ciò che è stato, diventa una traccia di continuità, come il mare che custodisce, e si fa archivio di ogni memoria. L’acqua, che irrompe dopo la cenere, non è solo contrasto, ma continuità: la polvere viene lavata via, rivelando un moto perpetuo tra oblio e rinascita. La sua presenza fisica, tangibile, amplifica l’effetto visivo, trascinando lo spettatore in un processo di trasformazione che lo coinvolge allagando i suoi occhi. I bicchieri, prima ricoperti e immobili, si riempiono e oscillano al ritmo delle onde,
restituendo vita a ciò che sembrava perduto. Questo momento cattura l’essenza del mare come forza che non si arrende mai, ma trasforma ogni traccia in una nuova possibilità. Quasi contemporaneamente si percepisce montare una scena come di tempesta. Il tavolo comincia a ruotare e scricchiola come un legno in mezzo ai marosi, evocando un caos primordiale. Le donne si muovono attorno ad esso con energia istintiva, animalesca, come se affrontassero la forza del mare e delle loro stesse emozioni. Questo vortice visivo rappresenta
l’instabilità della vita e la necessità di trovare un equilibrio, anche nel pieno della tempesta. La scena finale, un brindisi simbolico coi bicchieri al cielo, acqua raccolta, catturata in mezzo a un oceano d’acqua, celebra tutto questo, con un atto che suggella il viaggio compiuto, accettando le perdite e le trasformazioni come parte della vita stessa tanto più coi temi della perdita e del dolore qui risolti con una delicatezza che non spaventa, ma accoglie. “In assenza dell’umano – in questo caso direi il pubblico – del canto del mare non resterebbe che un inutile, eterno monologo.” Questa citazione di Victor Hugo, che è riemersa non so dove durante lo spettacolo, mi pare racchiudere perfettamente il senso profondo dell’opera: il mare, come la vita, ha bisogno di essere ascoltato per trovare un senso, per trasformare il suo fluire in poesia condivisa.
In questo percorso evocativo/autobiografico, si intrecciano poesia e danza, ballate, immagini, ricordi, virtuosismi, vento e il profumo di sale.
Il vento porta l’odore della terra dove la gente canta alla riva e lavora con le vele e con le nasse. Un universo catartico, esilarante e intriso di tenerezza, dolore e ingenua emozione.
“Velieri e navi, porta verso orizzonti colorati di rosa su cui sono dipinti cormorani gabbiani e ogni sorta di creature angeliche. Intorno ad ogni cosa c’è un’aria strana, inquieta, natia. La mia città, che è viva in ogni parte, ha l’angoletto adatto a me, alla mia vita pensosa e solitaria. Qui è davvero dolce e si avverte un profumo di cedro, mirto e sale. Un capitano. Nessun nome sulla prua, nessuna bandiera che sbatte in cima all’asta, nessun stemma sulla giacca, nessun marinaio che segue i suoi ordini.
Nient’altro che l’oceano a perdita d’occhio.
Una nave. Tre alberi. Sette vele. Diciotto cannoni. Un mal di denti. Il capitano pensa che più grande del mare, e della solitudine e della morte, sia il dolore.”
Menu Passaggi d’autunno
30 ottobre
Cappunadda tradizionale carlofortina
Bobba: la vellutata di fave secche, verdure le erbette dell’isola
Tarantello di tonno rosso alla carlofortina
Sorbetto al limone o gelatino al caffè
ideazione regia coreografia: Simonetta Pusceddu
collaborazione registica e drammaturgica: Anthony Mathieu
interpreti e autori: Elisa Zedda, Giorgia Gasparetto, Lupa Maimone, Nadia Addis
direzione musicale: Marco Caredda
musica dal vivo esecuzione: Elsa Paglietti (violino e pianoforte) e Marco Caredda (percussioni violoncello e pianoforte)
disegno luci: Riccardo Serra
collaborazione allestimento scenico: Santo Pablo Krappmann
costumi: Cinzia Medda
musiche: Wolfgang Amadeus Mozart: Vorrei Spiegarvi, Oh Dio ; Franz Schubert: Schwanengesang ; Ludwig van Beethoven: Sonata al chiaro di luna
Marco Caredda: Grave (zara, percussioni), Polvere (violoncello e violino)
Elisa Zedda: canto
Io provengo dal mare e so che il giorno che l’oceano
riversò le sue prime onde sulla riva,
bagnò scogli già erosi dalle maree,
spiagge cosparse di frammenti di conchiglie e promontori
che difendevano dalle acque le sponde frananti della terra.
Il progetto
si realizza attraverso una scrittura coreografica di danza, di sogno, di canti, e musica dal vivo, dove i corpi risuonano una fitta rete di suoni e di voci di chi come me è nata e cresciuta a cento passi dal mare. “Cento passi è vicino. Talmente vicino che si può ascoltare il rumore del mare…” Un’opera che fluisce come un’onda, portando lo spettatore attraverso il tempo e la memoria, il ricordo e la trasformazione e la musica dal vivo crea un’esperienza che respira e si muove con la forza e la delicatezza del mare. Il teatro diventa una distesa liquida in cui ogni elemento – parole, gesti, suoni, immagini – si fonde, evocando la vastità dell’oceano e delle emozioni umane. Emerge una capitana solitaria, una figura evocativa che guida il vascello tra onde di memoria e tempo, sospesa tra naufragio e salvezza. Attraverso la sua voce, la navigazione assume contorni intimi e universali. Intorno a lei, una ciurma di donne simboliche si muove e si racconta, ognuna con la propria presenza unica: sono amiche, compagne di viaggio, o forse frammenti della protagonista stessa. Come tante anime o sfaccettature di una personalità complessa, le interpreti richiamano un viaggio interiore che esplora i molteplici sé della donna protagonista, in un racconto che si aggiunge e spesso sostituisce con gesti e movimenti alla parola. Uno dei tanti momenti significativi sulla scena, che riflette sulla fragilità della memoria, è rappresentato dall’immagine del “cameo”, che richiama l’effimera bellezza fissata in un’effigie. Anche le parole più poetiche possono essere dimenticate, portate via come l’acqua che scorre e cancella. È un’immagine
potente, che racchiude l’ironia dell’esistenza: le nostre tracce, per quanto profonde, possono dissolversi, ma in quel fluire si cela la possibilità di rigenerarsi. L’acqua, che scorre dal fondo di una bacinella o di uno sciacquone, non porta via solo dolore, ma diventa un atto di autoironia e speranza, un invito a non rimanere intrappolati nelle perdite, ma a lasciarle andare per ritrovare vitalità. Uno dei momenti più poetici e riusciti cade all’improvviso letteralmente dal cielo. Una nevicata di polvere sottile avvolge ogni cosa in un surreale piovere silenzioso e carico di significato. La cenere copre lentamente il tavolo, i bicchieri e i corpi delle donne, evocando un tempo sospeso, un luogo dove la solitudine, i ricordi e la malinconia si stratificano come sedimenti di vita vissuta. In questo paesaggio immobile, le figure femminili non si fermano: si raccontano, si pettinano, danzano tra loro e con gli oggetti, trasformando questo manto impalpabile in una coreografia di gesti che celebrano la forza vitale. È un’immagine che richiama non solo il mare, ma il ciclo della natura, in cui tutto si
trasforma e rinasce: la cenere, simbolo di ciò che è stato, diventa una traccia di continuità, come il mare che custodisce, e si fa archivio di ogni memoria. L’acqua, che irrompe dopo la cenere, non è solo contrasto, ma continuità: la polvere viene lavata via, rivelando un moto perpetuo tra oblio e rinascita. La sua presenza fisica, tangibile, amplifica l’effetto visivo, trascinando lo spettatore in un processo di trasformazione che lo coinvolge allagando i suoi occhi. I bicchieri, prima ricoperti e immobili, si riempiono e oscillano al ritmo delle onde,
restituendo vita a ciò che sembrava perduto. Questo momento cattura l’essenza del mare come forza che non si arrende mai, ma trasforma ogni traccia in una nuova possibilità. Quasi contemporaneamente si percepisce montare una scena come di tempesta. Il tavolo comincia a ruotare e scricchiola come un legno in mezzo ai marosi, evocando un caos primordiale. Le donne si muovono attorno ad esso con energia istintiva, animalesca, come se affrontassero la forza del mare e delle loro stesse emozioni. Questo vortice visivo rappresenta
l’instabilità della vita e la necessità di trovare un equilibrio, anche nel pieno della tempesta. La scena finale, un brindisi simbolico coi bicchieri al cielo, acqua raccolta, catturata in mezzo a un oceano d’acqua, celebra tutto questo, con un atto che suggella il viaggio compiuto, accettando le perdite e le trasformazioni come parte della vita stessa tanto più coi temi della perdita e del dolore qui risolti con una delicatezza che non spaventa, ma accoglie. “In assenza dell’umano – in questo caso direi il pubblico – del canto del mare non resterebbe che un inutile, eterno monologo.” Questa citazione di Victor Hugo, che è riemersa non so dove durante lo spettacolo, mi pare racchiudere perfettamente il senso profondo dell’opera: il mare, come la vita, ha bisogno di essere ascoltato per trovare un senso, per trasformare il suo fluire in poesia condivisa.
In questo percorso evocativo/autobiografico, si intrecciano poesia e danza, ballate, immagini, ricordi, virtuosismi, vento e il profumo di sale.
Il vento porta l’odore della terra dove la gente canta alla riva e lavora con le vele e con le nasse. Un universo catartico, esilarante e intriso di tenerezza, dolore e ingenua emozione.
“Velieri e navi, porta verso orizzonti colorati di rosa su cui sono dipinti cormorani gabbiani e ogni sorta di creature angeliche. Intorno ad ogni cosa c’è un’aria strana, inquieta, natia. La mia città, che è viva in ogni parte, ha l’angoletto adatto a me, alla mia vita pensosa e solitaria. Qui è davvero dolce e si avverte un profumo di cedro, mirto e sale. Un capitano. Nessun nome sulla prua, nessuna bandiera che sbatte in cima all’asta, nessun stemma sulla giacca, nessun marinaio che segue i suoi ordini.
Nient’altro che l’oceano a perdita d’occhio.
Una nave. Tre alberi. Sette vele. Diciotto cannoni. Un mal di denti. Il capitano pensa che più grande del mare, e della solitudine e della morte, sia il dolore.”
Menu Passaggi d’autunno
30 ottobre
Cappunadda tradizionale carlofortina
Bobba: la vellutata di fave secche, verdure le erbette dell’isola
Tarantello di tonno rosso alla carlofortina
Sorbetto al limone o gelatino al caffè
INGRESSO A PAGAMENTO
ideazione regia coreografia: Simonetta Pusceddu
collaborazione registica e drammaturgica: Anthony Mathieu
interpreti e autori: Elisa Zedda, Giorgia Gasparetto, Lupa Maimone, Nadia Addis
direzione musicale: Marco Caredda
musica dal vivo esecuzione: Elsa Paglietti (violino e pianoforte) e Marco Caredda (percussioni violoncello e pianoforte)
disegno luci: Riccardo Serra
collaborazione allestimento scenico: Santo Pablo Krappmann
costumi: Cinzia Medda
musiche: Wolfgang Amadeus Mozart: Vorrei Spiegarvi, Oh Dio ; Franz Schubert: Schwanengesang ; Ludwig van Beethoven: Sonata al chiaro di luna
Marco Caredda: Grave (zara, percussioni), Polvere (violoncello e violino)
Elisa Zedda: canto
Botteghino
Prenotazione On-line:
Informazioni e ticket
Ingresso 10 euro
Ingresso + cena 30 euro